“Il buco dell’ozono sopra l’Antartide potrebbe chiudersi entro cinque anni”: questo il risultato di uno studio condotto dal team del professor Peidong Wang del MIT, pubblicato su Nature.
Il buco dell’ozono e i media
Una notizia di straordinaria rilevanza per il pianeta e l’intera popolazione, ma che sorprendentemente non ha ricevuto l’attenzione mediatica che meriterebbe.
Dopo decenni di narrazione ambientalista che ha spesso enfatizzato in termini allarmistici le cause e le conseguenze del buco dell’ozono, oggi una notizia che va in controtendenza viene quasi ignorata. Questa assenza di copertura mediatica può apparire inspiegabile — o forse no.
Forse una notizia che non contiene parole chiave come “disastro”, “morte” o “distruzione” non genera abbastanza interesse. O forse il contenuto è percepito come eccessivamente ottimistico per ricevere l’esposizione che gli spetterebbe.
Al di là delle ipotesi e delle “cattive interpretazioni”, vediamo nel dettaglio cosa rivela lo studio del MIT e perché ha suscitato un acceso dibattito nella comunità scientifica.
Cosa rivela lo studio del MIT
Secondo i ricercatori del MIT, i livelli di ozono sopra l’Antartide mostrano una tendenza alla stabilizzazione, con una crescita costante della concentrazione dal 2000 a oggi.
Lo studio scientifico si base sulla proiezione dei dati attuali, che applicati ad un modello climatico sviluppato dal team stesso rivela che l’intero strato di ozono sull’Antartide potrebbe tornare ai livelli pre-1980 entro i prossimi cinque anni. Un notizia positiva che però divide il mondo scientifico.
Peidong Wang, autore principale dello studio, ha spiegato che il risultato è frutto di una tecnica chiamata fingerprinting climatico, che permette di distinguere i segnali provocati da cause umane da quelli dovuti a fattori naturali. “Abbiamo confrontato oltre 15 anni di osservazioni satellitari con simulazioni atmosferiche dettagliate – ha detto lo scienziato – Il segnale che emerge è inequivocabile: la riduzione dei CFC ha innescato il recupero.”
Reazioni positive: il successo della cooperazione internazionale
I risultati dello studio hanno entusiasmato numerosi esperti che hanno accolto la notizia come una prova concreta dell’efficacia delle iniziative green adottate negli ultimi 30 anni.
In primis il Protocollo di Montréal, con cui sono stati messi al bando tutte le tecnologie che producono CFC . In vigore dal gennaio 1989, il Trattato ad oggi ratificato da 197 Paesi dimostrerebbe che la scienza va ascoltata e supportata.
In tal senso, la possibile chiusura del buco dell’ozono rappresenterebbe non solo un successo scientifico, ma anche un precedente incoraggiante per affrontare altre crisi globali, come quella climatica.
Alcuni studiosi auspicano che questo risultato venga utilizzato per promuovere un’azione analoga nella transizione ecologica e nella riduzione delle emissioni di gas serra, azioni che potrebbero cambiare il corso della storia.
Le voci critiche
Commenti positivi non condivisi appieno dal mondo scientifico. E qui si è aperto un interessante dibattito nel mondo scientifico.
Attenzione agli annunci prematuri
Le voci fuori dal coro non condividono tale entusiasmo e mostrano scetticismo. Sono numerosi gli scienziati che confutano le previsioni ottimistiche del MIT e invitano alla cautela, sottolineando come le proiezioni modellistiche non siano garanzia di successo certo.
Parlare di ‘chiusura’ del buco dell’ozono nel 2030 potrebbe essere, secondo loro, fuorviante, perche anche se vi sono evidenze di riduzione drastica di CFC, alcuni idrofluorocarburi e sostanze non regolamentate potrebbero ancora rappresentare una minaccia per la stabilità dello strato di ozono. Nell’analisi critica è valutato anche il cambiamento climatico stesso, che potrebbe influenzare negativamente la circolazione atmosferica e la distribuzione dell’ozono, introducendo variabili difficili da prevedere con precisione.
Le foto NASA smentiscono l’ottimismo
A rafforzare i dubbi, i critici citano la NASA, che nel 2023 ha pubblicato una serie di immagini satellitari che mostrano un’espansione preoccupante del buco dell’ozono sopra l’Antartide, rendendolo uno dei più grandi degli ultimi decenni. Le cause, secondo l’Agenzia spaziale statunitense, sarebbero legate a particolari condizioni atmosferiche che hanno favorito la distruzione dell’ozono, nonostante la riduzione dei CFC. Questo dato sembra contraddire le proiezioni ottimistiche, suggerendo che la guarigione dello strato di ozono sia tutt’altro che lineare e che restino forti elementi di vulnerabilit
Europa e politiche green
In un clima di tensioni internazionali con al centro le risorse energetiche, i dati pubblicati da Nature diventano oggetto di dibattito politico. Mentre da una parte le previsioni ottimistiche del MIT vengono presentati da alcuni come una vittoria degli ambientalisti ambientali, dall’altro si condannano fermamente le politiche green. E sotto processo finisce l’Unione Europea con la presidenza von der Leyen, che sta attuando politiche verdi criticate dalla stesso schieramento conservatore. Il PPE sta infatti cercando di rallentare il Green Deal per alleviare il carico burocratico eccessivo che queste hanno creato sull’industria e sull’agricoltura. Alla presidente von del Leyen si rimprovera l’attuazione dell’agenda green in maniera generalizzata, altamente ideologizzata e scarsamente sostenuta da un’analisi costi-benefici concreta.
Una guerra intestina alla stessa maggioranza, perché, salvare la Terra non implica la distruzione dell’economia di Paesi interi.
Un sacchetto di organico vale una Terra
In conclusione possiamo dire che lo studio del MIT, se tuttavia appare immediatamente confortante, merita probabilmente uno sguardo più critico. Tanto che ci chiediamo se davvero all’indifferenza all’ecosostenibilità di Cina, India, Stati Uniti, Russia, Giapppne, che da soli rappresentano il 60% delle emissioni globali di CO2, sia vincente il nostro senso di responsabilità che ci fa comprare auto elettriche, pannelli fotovoltaici (non sappiamo ancora come faremo poi a smaltire batterie e impianti), 5 contenitori per i rifiuti casalinghi.
Chissà forse un giorno sapremo che quel sacchetto di rifiuti organici, buttato due volte a settimane nel contenitore distante 500 metri da casa, ha salvato il mondo.