La decrescita non è felice
La radicalizzazione politica in atto nelle società occidentali è frutto anche dell’impoverimento e dell’emarginazione del ceto medio. Se le analisi tenessero nel giusto conto tale fattore, si cesserebbe di demonizzare gli elettori, tentando al contrario di capirne le ragioni. Spesso, tuttavia, fingere di non capire rappresenta un ottimo escamotage per non affrontare alla radice problemi che per la maggioranza dei cittadini sono invece centrali.
L’assenza di speranza cessa così di essere “solo” un vulnus psicologico, concorrendo a realizzare una “profezia che si autoavvera”. Ecco perché la ricerca di cui parliamo oggi (commissionata al Censis dalla Confederazione dei dirigenti e delle alte professionalità del pubblico e del privato – Cida) ritrae un quadro a tinte fosche di cui la politica dovrebbe tenere gran conto.
La “fragilizzazione” del ceto medio
I risultati sono impietosi. Nonostante il 60,5% degli italiani si identifichi ancora come parte del ceto medio, più della metà (54,2%) denuncia infatti un senso di declino. Il 75,1% è inoltre convinto che le generazioni future vivranno in un contesto peggiore rispetto a quello attuale.
Non a caso il Censis ha utilizzato il termine “fragilizzazione”, a ribadire la precarietà e la debolezza del ceto medio. Ceto medio che era (e, malgrado tutto, continua ad essere) la colonna vertebrale della Nazione.
Attenzione, non si tratta “soltanto” di un problema di percezione. Sono gli stessi indicatori macroeconomici a dare ragione ai pessimisti. Nel ventennio che intercorre tra il 2001 e il 2021, ad esempio, il reddito pro capite delle famiglie italiane è calato del 7,7%. Una riduzione ancor più significativa se paragonata alla performance europea, la cui media nel medesimo periodo è aumentata di quasi 10 punti percentuali.
Generale è la paura del declassamento e dell’impoverimento in arrivo. Su queste colonne mettiamo spesso in guardia circa una lettura acritica dei dati sull’occupazione. Dati in continuo miglioramento, che però celano molteplici insidie. Se è vero, infatti, che esiste nel post Covid una ripresa evidente dal punto di vista quantitativo, diverso il discorso in termini qualitativi, con precarietà dilagante e salari fermi dal 1991.






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