Il Premio Internazionale Thomas Schippers
Il compositore Davide Perico ha ricevuto a Spoleto, lo scorso 28 settembre, il Premio Internazionale Thomas Schippers, all’interno del Menotti Art Festival diretto musicalmente dalla Prof. Elena Sabatino, con la direzione generale del Prof. Luca Filipponi, autentico deus ex machina di tutti i contenuti dello Spoleto Art Festival.
Il nome del riconoscimento deriva dall’iconico direttore d’orchestra americano (Kalamazoo, Michigan, 1930 – New York 1977), che fu un talento precoce e che è sepolto in piazza del Duomo a Spoleto: intraprese la carriera direttoriale nel 1948 a New York e nel 1950 a Filadelfia diresse la prima del Console di Giancarlo Menotti, con cui collaborò alla direzione del New York City Center (1950-55); poi, dal 1958, fu per varî anni direttore artistico del Festival dei due mondi di Spoleto. Schippers divenne un nome di prestigio internazionale nei maggiori teatri del mondo, e si rivelò valido interprete tanto del repertorio operistico romantico e verista quanto di quello moderno.
Un artista poliedrico
Davide Perico è non solo un compositore, ma anche un produttore e sound designer, avendo oltre trent’anni di esperienza nel settore musicale. Nato a Bergamo e attualmente residente in provincia di Milano, ha iniziato il suo percorso con studi di pianoforte classico, per poi specializzarsi in ingegneria del suono. La sua formazione trasversale, unita a una profonda sensibilità artistica, lo ha portato a esplorare una vasta gamma di generi musicali, dall’elettronica all’orchestrale, dal jazz fusion al lo-fi. Polistrumentista (suona pianoforte, tastiere, basso elettrico e chitarra) Perico si distingue per la capacità di fondere sonorità acustiche e digitali, creando ambientazioni sonore ricche, evocative e dal forte impatto emozionale.
Il suo talento trova massima espressione nel mondo delle colonne sonore. Parallelamente alla carriera cinematografica e videoludica, è un punto di riferimento nella scena lo-fi internazionale. È fondatore dell’etichetta Chill Italy Music, con cui promuove progetti ambient ed elettronici sperimentali. Nel corso della sua carriera, ha ricevuto altri importanti riconoscimenti, tra cui il premio del Comitato Nazionale Italiano Fair Play per la composizione dell’inno ufficiale di Fair Play for Life. I suoi videoclip in computer grafica sono stati premiati in molti festival sparsi per il mondo, come il Vesuvius International Film Fest, il Black Swan International Film Festival e il London International Film Festival.
L’intervista a Davide Perico
Cosa rappresenta per lei, in questo momento, ricevere un riconoscimento tanto prestigioso?
È un momento di grande gratitudine e responsabilità. Il Premio Thomas Schippers, nell’ambito del Menotti Art Festival, ha l’intento di celebrare chi ha costruito un ponte tra musica e mondo, tra internazionalità e arte. Riceverlo in una città come Spoleto, in un contesto che coniuga storia, cultura e dialogo artistico, mi sembra quasi un invito a continuare con ancora maggiore forza su quella strada che considero l’essenza del mio lavoro: fare musica che non resti confinata, che esca.
Lei parla spesso di musica come strumento di pace e dialogo. Come vede il ruolo della musica nel tessuto sociale contemporaneo?
Per me la musica è linguaggio universale, capace di attraversare barriere linguistiche, culturali, politiche. È nel dialogo musicale che si può costruire una relazione autentica con “l’altro”, anche quando l’altro proviene da culture e contesti lontani. Credo che in un mondo frammentato, dove i confini – geografici, ideologici, sociali – si fanno più forti, la musica possa agire come un filo che collega, come una memoria condivisa dell’umano. Quando suono, quando progetto collaborazioni, non è solo per fare bellezza: è per cercare un terreno comune, dove le differenze non siano muri, ma ponti.
In quest’ottica, lei nutre la convinzione che “la musica dovrebbe essere apolitica”. Come concilia questa idea con l’impegno che molte volte si chiede all’artista nei confronti delle ingiustizie sociali e politiche?
Quando dico che la musica dovrebbe essere apolitica, intendo che essa, in quanto forma espressiva pura, non dovrebbe farsi strumento di propaganda partitica. Non significa che l’artista debba essere neutrale: tutt’altro. È proprio perché credo che la musica abbia un potere profondo che ritengo che non debba essere schiava di visioni politiche contingenti. L’impegno che un artista può metterci è quello esistenziale, etico: scuotere le coscienze, mantenere la tensione critica, provocare domande anziché dare risposte. In questo senso, l’“apolitico” non è disimpegno, ma autonomia dell’arte rispetto ai poteri del momento.
Parliamo delle sue collaborazioni con artisti stranieri: quanto crede che queste frequentazioni internazionali aiutino a dissolvere confini culturali? E cosa succede quando un artista resta fermo troppo a lungo nelle stesse modalità rassicuranti?
Collaborare con artisti provenienti da ogni parte del mondo è fondamentale: è uno scambio che arricchisce, mette in crisi le proprie coordinate, apre orizzonti. Se si resta troppo a lungo fermi – nella propria nicchia culturale, nel proprio ristretto ambiente – si costruiscono confini e facciamo crescere diffidenze nei confronti di ciò che è “fuori”. Il sospetto, lo straniero, il diverso diventano fantasmi da temere. Io credo che dobbiamo spostarsi, contaminarci, lasciarci attraversare da ritmi, melodie, sensibilità che non ci appartengono: è lì che può nascere qualcosa di vivo. Un artista immobile, artisticamente parlando, è già in declino perché ha chiuso le finestre del suo mondo.
Lei sovente ha espresso che la struttura della nostra società è afflitta da un “immobilismo patologico” e da un’eccessiva identificazione con la posizione sociale, con il benessere materiale. Può spiegare meglio questo concetto e collegarlo al compito dell’arte?
Sì: viviamo in un’epoca in cui si difende la propria “scena sociale”, la propria identità come fosse un castello fortificato. E difendendola, si rinuncia al rischio, al confronto, alla frattura. Il benessere si trasforma da uno stato interiore (la capacità di vivere, creare, trasformare) a uno status economico: chi sta bene è colui che consuma, che possiede, che protegge il proprio spazio. Questo atteggiamento anestetizza la sensibilità, riducendo la possibilità di disagio, di protesta, di cambiamento. L’arte è una presenza inquieta in questo contesto: deve turbare, dislocare, spingere fuori dai confini del “ciò che è comodo”. Se non lo fa, diventa una consolazione inutile. L’artista deve essere una spina nella carne del presente.





