Gianni Alemanno: il processo, la condanna, il carcere. Una riflessione amara sulla giustizia e una battaglia che interroga il Sistema
Un uomo siede in una cella sovraffollata, con quaranta gradi all’ombra di un’estate romana. Non è un criminale qualunque: è Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, già ministro dell’Agricoltura. La sua storia non è solo la cronaca di una condanna, ma il sintomo di una malattia profonda che affligge l’idea stessa di giustizia nel nostro Paese.
Partiamo dai fatti, quelli cristallizzati da una sentenza definitiva. Alemanno è stato condannato ad un anno e dieci mesi di reclusione per traffico di influenze illecite, dopo un lungo processo iniziato con accuse di associazione mafiosa, corruzione. Un percorso giudiziario, con un carico di accuse pesanti, a mano a mano snellito dall’inconsistenza delle fonti accusatorie.
Niente da Palamara
Qui la cronaca giudiziaria si arresta e deve iniziare la riflessione politica. Perché una sproporzione così evidente tra l’accusa iniziale e ciò che è effettivamente emerso alla fine? Non si discute la sentenza ma l’iter.
La risposta, forse, non si trova nei codici, ma nell’ombra lunga del “Sistema” che il caso Palamara ha svelato (libro in pdf nel link). Un sistema dove le nomine dei procuratori si decidono a tavolino, dove l’appartenenza a una corrente conta più del merito e dove si discute di come “attaccare” o “fermare” avversari politici. Oggi sul caso Palamara molto è stato insabbiato, come il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha denunciato al convegno di Magistratura Indipendente a Milano Marittima nel giugno scorso.
Di fronte a questo scenario, la domanda non è più se gli Alemanno siano colpevoli del reato per cui sono stati condannati. La domanda, più inquietante, è se il processo di ognuno di loro sia stato un atto di giustizia o l’esecuzione di una sentenza politica scritta altrove.
Quando il sospetto che la magistratura possa agire come un’arma ideologica diventa una certezza documentata, come possiamo ancora distinguere un’inchiesta da una persecuzione?
Una battaglia di civiltà dal carcere
L’ex uomo delle Istituzioni oggi denuncia la violazione della dignità umana e la vita disumana degli uomini rinchiusi a Rebibbia e invia lettere che, nel rispetto delle norme dell’Ordinamento, vengono regolarmente pubblicate su una pagina Facebook. Si chiama “Diario dalla cella 12 di Rebibbia”: è il racconto doloroso di una non vita di detenuti che vivono in celle fatiscenti, di lavandini senza acqua, di sovraffollamento. Le ultime lettere raccontano della vita in questi spazi angusti condivisi dal doppio delle persone che dovrebbero ospitare. Il caldo soffocante vissuto come una tortura per loro che sono lì, “mentre la politica dorme (con l’aria condizionata)” – scrive Alemanno.
Nelle sue lettere Alemanno non si lamenta per sé ma racconta la mancanza del minimo indispensabile per sentirsi ancora uomini vivi e non bestie. L’ex sindaco di Roma denuncia una realtà che è l’ultimo, e forse più brutale, fallimento di uno Stato che dovrebbe dare dignità anche a chi ha sbagliato.
Su questo argomento, la reazione di una parte dell’opinione pubblica è il termometro di questa malattia. Il sarcasmo, l’insulto, il “ben ti sta” urlato sui social non sono espressione di sete di giustizia ma di una vendetta cieca. È la reazione di una società che, non credendo più nella giustizia dei tribunali, si rifugia nella gogna, confondendo la pena con la tortura. È lo sfogo di chi, non fidandosi più di nessuno, gode della caduta altrui come unica “magra consolazione”.
Oggi Gianni Alemanno, domani a chi?
Oggi tocca ad Alemanno ma sappiamo che lui è in coda ad una lunga lista, iniziata nel 1992. La sua vicenda è uno specchio che riflette un’immagine deforme di tutti noi. Riflette un Paese dove la presunzione di innocenza è un lusso, dove la giustizia mediatica emette sentenze inappellabili e dove la fiducia nelle Istituzioni è crollata sotto il peso dei propri scandali interni.
La vera battaglia, quindi, non è difendere Gianni Alemanno, il politico. È difendere l’idea che un uomo, chiunque egli sia, abbia diritto a un processo giusto e a una pena dignitosa. È pretendere che la giustizia non sia un’arena di potere ma un servizio equo per i cittadini. Se rinunciamo a questa pretesa, se lasciamo che l’ombra del dubbio avvolga ogni sentenza, allora non sarà solo un uomo a essere prigioniero. Saremo tutti prigionieri di un Sistema che ha smesso di cercare la verità per accontentarsi del potere. E allora saremo davvero tutti soli. Eppure, una soluzione possibile ci sarebbe: la rivoluzione meritocratica.