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Home Giurisprudenza

Separazione delle carriere: Falcone era favorevole

Nel dibattito sulla riforma della giustizia riaffiorano letture distorte e accuse ideologiche. Le parole del magistrato nel 1988 e 1991 indicano una posizione netta: giudice e pubblico ministero devono essere figure distinte.


Bruno Larosa by Bruno Larosa
Settembre 7, 2025
in Giurisprudenza, Ultimissime
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separazione delle carriere
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Separazione delle carriere. Contro gli slogan / terza parte

(pubblicazione del 5; pubblicazione del 6 settembre)

…Queste sono le premesse ed è il successivo quadro nel quale si mossero i Costituenti, e allora lascerei da parte tanto Licio Gelli, la sua P2 e Silvio Berlusconi. Piuttosto segnalo lo scopo evidentemente perseguito dai sostenitori di questo slogan: tentare di criminalizzare o mettere in cattiva luce coloro che oggi – in tempi in cui il rosso simbolico si è molto scolorito – propugnano la separazione delle carriere.

Analoga inesattezza si cela in chi – contro coloro che ne fanno un giusto e riguardoso richiamo – sostiene che “Giovanni Falcone non ha mai propugnato la separazione delle carriere”.

Invece Falcone lo ha fatto in almeno due occasioni pubbliche: il 28 luglio 1988, nel corso di un suo intervento a un convegno promosso da Mondo Operaio e, successivamente, il 3 ottobre 1991, in un’intervista rilasciata a Mario Pirani, pubblicata su La Repubblica.

Non fu affatto un’affermazione istintiva e decontestualizzata, ma del tutto ragionata e preziosa in punto di diritto, e alla quale è molto difficile opporre argomenti giuridici e politici contrari: “La questione centrale” affermava Falcone, “che non riguarda solo la criminalità organizzata, sta nel trarre tutte le conseguenze sul piano dell’ordinamento giudiziario che il passaggio dal processo inquisitorio al processo accusatorio comporta. Se questa riforma dell’ordinamento non sopravviene rapidamente il nuovo processo è destinato a fallire. Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti.  Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e PM siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del Pm con questioni istituzionali totalmente distinte. Gli esiti dei processi, a cominciare da quelli di mafia, celebrati col nuovo rito, senza una riforma dell’ordinamento, sono peraltro sotto gli occhi di tutti”.

Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro, se non che una parte di quelli che, all’interno della magistratura, allora lo boicottarono, continua ancora a opporsi strenuamente alle sue idee.

“Perché sprecare tante energie con una riforma costituzionale quando il numero di magistrati che passa da una funzione all’altra è meno dell’1%?… Evidentemente il fine perseguito dai riformatori è diverso”.

Anche queste asserzioni si scontrano con il rigore logico, e così si tenta di dare all’opinione pubblica una rappresentazione negativa del Legislatore al quale, indipendentemente dalle idee politiche perseguite, bisogna riconoscere il rispetto che è proprio di ogni Istituzione, Ordine giudiziario compreso.

Intanto che siano pochi i magistrati a migrare da una funzione all’altra non significa affatto che domani, invece, non siano molti a farlo. E come ben ricorda un autorevole magistrato ancora avvezzo alle TV, “la politica consiste nel saper prevedere le difficoltà future e prevenirle”.

Poi è da dire che, nella pratica, questa scarsa propensione allo scambio, non rompe affatto la commistione tra le due funzioni a danno del Giudice, il quale è valutato dai PM nella sua progressione di carriera, nei trasferimenti, nelle domande che riguardano il suo profilo professionale. Senza contare che i PM siedono nei Consigli Giudiziari e nel CSM: dare torto al PM, dunque, può avere potenziali conseguenze sulla carriera del Giudice e dunque condizionarlo, quando non anche determinare gravi situazioni come quelle descritte nel mio ultimo romanzo.

Non posso fare a meno di citare ancora quanto sosteneva Mario Pagano: “Il timore attacca la libertà nella sua stessa sorgente”. E che il timore, anche inconscio, del giudice possa trarsi dalla presenza, a volte asfissiante, del PM, consegue logicamente anche da quello che di questo magistrato recentemente ha scritto Giovanni Canzio: “forte di un indebito intreccio di relazioni con gli organi di stampa e dei media, a comunicare e valorizzare l’ipotesi accusatoria e il suo operato attraverso tali organi, o nel contesto di social network e talk show, relazionandosi direttamente con il popolo e con la politica, persino con l’esecutivo. ‘Porte girevoli’ invero censurabili, questa, grazie alle quali il pubblico ministero, al di là e fuori del suo ruolo istituzionale, viene ad assumere l’impronta e spesso inadeguata veste di prevalente – se non esclusivo – storyteller dei casi e delle questioni di giustizia, di cui si fa rappresentante o addirittura promotore di revisioni legislative ad hoc, anziché operare nel contesto storico-spaziale e secondo le regole del procedimento o del processo”.

La verità è che con la riforma il PM teme di perdere questo ruolo da prima donna, e con esso il grande e incontrollato potere che ne deriva. Con la separazione delle carriere, assicurando a entrambi i magistrati requirenti e giudicanti, autonomia e indipendenza esterna e interna, significa dare effettivamente al giudice quel ruolo centrale che nel processo penale gli spetta quale soggetto deputato a giudicare sulle domande di giustizia che provengono dal PM, facendolo in una posizione di terzietà e imparzialità anche rispetto alla parte pubblica, così come vuole un sistema processuale accusatorio e, peraltro, come sta scritto nella Costituzione.

Una riforma, allora, che non è un attacco all’autonomia e all’indipendenza dei magistrati – noi avvocati per primi lo impediremmo! – come è evidente leggendo scrupolosamente prima il disegno di legge di iniziativa popolare presentato dall’Unione delle Camere Penali nella passata legislatura e ora, il testo di iniziativa governativa. La previsione di un doppio CSM, uno per i PM e l’altro per i soli Giudici, con la maggioranza in entrambi gli Organi dei componenti togati, è la garanzia assoluta e indissolubile per la loro reciproca indipendenza e autonomia.

Peraltro, nella discussione non è mai emersa, esplicitandosi, la modalità con la quale la riforma consentirebbe le pretese interferenze dell’Esecutivo e del Ministro della Giustizia sui Pubblici Ministeri.

Dispiace solo che a rispondere agli interventi di tanti autorevoli personalità contrarie alla separazione delle carriere, non si inviti nessuno pronto a ricordare loro lo stato di gravissima ingiustizia in cui versa il servizio penale, citando, per sostenerlo, le centinaia di suicidi, in gran parte di persone in attesa di giudizio, che ogni anno cadono all’interno delle nostre carceri e portando la voce di quelle centinaia di migliaia di cittadini che, per essere “riparati” dalla ingiusta detenzione subita, ciascuno con un miserabile assegno, complessivamente sono costati allo Stato più di un miliardo di €.

Anche a costoro, alle loro famiglie – e non solo a loro – gli avvocati penalisti hanno il dovere di dare voce, sostenendo questa riforma costituzionale con il massimo impegno e a prescindere dalla propria appartenenza ideologica, perché, come diceva Filippo Turati, il punto della questione è che con l’attuale Ministero, la nostra “è collaborazione tecnica, non collaborazione politica”.


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