Dal “DOJ contro Trump” al “NY contro Trump”
Il Dipartimento di Giustizia americano, con il processo “DOJ VS Trump”, sta ancora cercando di incriminare il principale rivale di Biden. L’accusa ufficiale è quella di possesso illegale di documenti “riservati”. L’obiettivo è dunque ambizioso ma gli ostacoli sono molti e difficili da superare. Innanzitutto va detto che declassificare i documenti riservati è una prerogativa di ogni presidente USA, Trump compreso. Non a caso esistono numerosi precedenti di presidenti (Bill Clinton ad esempio) trovati in possesso di documenti riservati e mai perseguiti per tale condotta.
Gioca a favore di Trump, inoltre, la recente indagine ai danni di Joe Biden. Il procuratore speciale del DOJ (Department of Justice), Robert Hur, ha recentemente indagato il presidente in carica per lo stesso motivo per cui ora è sotto processo il tycoon. All’epoca dei fatti imputatigli, l’attuale inquilino della Casa Bianca era senatore o vice presidente. Biden era dunque pienamente perseguibile non disponendo dell’immunità presidenziale. Eppure il candidato dem è stato prosciolto perché “troppo compromesso cognitivamente per essere perseguito legalmente”.
A rigor di logica, quindi, dovrebbe essere improbabile una condanna di Trump. Per i dem, tuttavia, le buone notizie arrivano da New York. La Grande Mela è infatti riuscita dove il DOJ avrebbe avuto difficoltà.
Il giudice anti Trump del Tribunale di Manhattan
Nel primo processo fatto ad un ex presidente degli USA ci si sarebbe aspettati un giudice imparziale e obiettivo. In molti, tuttavia, dubitano che Juan Merchan possa essere definito in tal modo. Notorie le simpatie dem del togato, nonché la sua avversione per il candidato repubblicano.
L’ex procuratore e presenza fissa della CNN, Elie Honig, scrive ad esempio sul New York Magazine: “Il giudice ha donato denaro – una piccola somma, 35 dollari, ma in palese violazione di una regola che vieta ai giudici di New York di fare donazioni politiche di qualsiasi tipo – a un’iniziativa politica pro-Biden e anti-Trump”. Provocatoriamente, Honig chiede se la situazione opposta (ossia un finanziamento a favore di Trump, anche solo di 2 dollari) sarebbe stata considerata legittima. “Assolutamente no” la risposta lapidaria.
A sostegno della mancanza di neutralità vi è un altro dato, non certo secondario. Merchan ha infatti accettato un processo che il procuratore Bragg ha basato interamente sulla testimonianza di Michael Cohen. Questi in passato è stato condannato a tre anni di carcere per evasione fiscale, violazione delle regole sul finanziamento della campagna elettorale e false dichiarazioni. Nel 2018, inoltre, si è dichiarato colpevole per aver nascosto più di 4 milioni di dollari all’IRS. Ha inoltre ammesso di aver mentito al Congresso durante l’indagine sulla Russia (venendo per questo anche radiato dall’albo degli avvocati).
La strategia di Bragg per incastrare Trump
Come è noto, i fatti al centro del processo risalgono alla campagna elettorale del 2016, che sarebbe culminata nella vittoria di Trump contro la favorita Hillary Clinton. In passato altri procuratori distrettuali di Manhattan hanno preso in considerazione l’idea di portare in tribunale questo caso, abbandonandola perché priva di fondamento.
Bragg, al contrario, ha voluto collegare una legge statale sulla falsificazione dei documenti alle violazioni elettorali a livello federale. La sua tesi è che i pagamenti di Trump fossero contrari alle leggi federali sul finanziamento della campagna elettorale. Ciò, pur non avendo Bragg, in quanto procuratore della contea, alcuna giurisdizione sugli statuti federali.
Se Bragg si fosse limitato a denunciare le violazioni commerciali avvenute nello Stato di New York, infatti, Trump sarebbe stato passibile al massimo di sanzioni civili. Soltanto violazioni federali avrebbero potuto condurre l’ex presidente a un’incriminazione e, potenzialmente, al carcere. Ed è qui che il giudice Merchan è arrivato in soccorso dell’astuto procuratore. Merchan ha respinto la testimonianza di alti funzionari della Commissione Elettorale Federale, che aveva espresso un giudizio lapidario sulla percorribilità legale della strada indicata da Bragg. Tuttora, del resto, Bragg non è riuscito a individuare un danneggiato dalla condotta di Trump, visto che lo stesso Merchan ha stabilito che non era obbligato a farlo.
Nessun giudice annullerà la condanna di Trump
Tutti, ormai, attendono l’appello. Non manca il timore che anche il secondo grado si svolga con le modalità del primo. L’avvocato Alan Dershowitz, per 50 anni professore di legge all’Università di Harvard, ritiene che la condanna non verrà ribaltata. Sarà infatti impossibile trovare un giudice a New York che abbia il coraggio di farlo.
“Questi giudici – ha spiegato Dershowitz – sono persone che devono vivere con le loro famiglie in una comunità dove regna la TDS (Trump Derangement Syndrome), cioè un diffuso senso di odio contro Trump”. Il giurista ha poi ricordato come egli stesso sia stato estromesso dalla Harvard Law School dopo mezzo secolo di servizio per aver rappresentato Trump durante il suo primo impeachment.
La sentenza di NY macchia la democrazia americana
Non resta dunque da sperare che il processo di appello si svolga con maggiore imparzialità. La giustizia ritardata, tuttavia, è sempre giustizia negata. Ritardo ancor più grave perché la sentenza arriverà certamente dopo le elezioni. Nel mentre gli oppositori di Trump potranno bollarlo come un “criminale condannato”, con ripercussioni sul voto. Anche in secondo grado, del resto, non mancheranno pressioni affinché la corte confermi la sentenza.
Il processo democratico potrebbe quindi uscirne gravemente danneggiato. Usare il sistema giudiziario come arma politica è una svolta negativa per l’America e speriamo che qualcuno riesca a disinnescare questa bomba prima che un simile conflitto tra poteri corroda irrimediabilmente la democrazia USA.