Sulla decadenza dell’Occidente si sono scritti fiumi d’inchiostro. Eppure il grottesco a cui siamo sottoposti quotidianamente riesce lo stesso a stupirci. Grottesco che, nel caso delle presidenziali americane, supera (e di molto) le nostre capacità di comprensione. Neanche il più convinto eurasiatista sarebbe riuscito a delegittimare la politica USA quanto l’ipotesi di un secondo mandato per Biden. In termini d’immagine internazionale, un anziano sperduto che balbetta di fronte alle telecamere è persino peggio dei colpi di Stato nell’America centrale, della fuga precipitosa dall’Afghanistan o delle bombe su Belgrado.
Certo, adesso si sfilano tutti (“In una nave che affonda gli intellettuali sono i primi a fuggire, subito dopo i topi e molto prima delle puttane” direbbe Majakovskij). Ma si è dovuti andare ben oltre l’evidenza per ammettere quanto sostenuto in precedenza soltanto da una parte dei repubblicani, ossia che Biden non dispone più delle necessarie condizioni mentali per guidare la barca americana. Ammesso che ne fosse provvisto prima, considerando le gaffe a ripetizione collezionate negli ultimi anni.
Attenzione, però: la criticità della situazione è imputabile solo in parte all’attuale inquilino della Casa Bianca. Biden, è vero, avrebbe potuto terminare dignitosamente il suo mandato, magari indicando un successore lucido e con le carte in regola per sconfiggere Trump. Invece, come sappiamo, si è preferito procedere sul piano inclinato che ha provocato l’imbarazzo generale di questi giorni. Biden, occorre tuttavia ricordarlo, non ha vinto le primarie dem. Le ha stravinte.
Ha girato i diversi Stati Usa, garantendosi l’appoggio, magari non entusiasta, della stragrande maggioranza dei suoi. Con la nazione che si è svegliata bruscamente soltanto la sera del 27 giugno, guardando il proprio presidente in evidente stato confusionale. Tanto da convincere Trump dell’inopportunità di un attacco frontale. Il che la dice lunga sulla totale vulnerabilità dell’avversario.
Ed eccoci all’oggi, con establishment ed elettorato dem nel panico, alla disperata ricerca di un Kathéchon qualsiasi, in grado di arginare il ritorno del leader MAGA, portavoce dell’America profonda. Improbabile diga che, giocoforza, proverrebbe dalle stesse file di chi fino a poche settimane fa spergiurava sulle intatte capacità cognitive di Biden. Non è del resto quello che ha fatto Kamala Harris la sera stessa del duello tv alla CNN?
Per utilizzare un noto proverbio, insomma, si guarda il dito e non la luna. Il caos democratico non è soltanto opera di Biden. Altrettanto colpevoli sono stati coloro, tra staff e sodali di partito, che non hanno visto o non hanno voluto vedere. Paragonabili a quanti, nell’Italia del dopoguerra, dipingevano il socialismo reale come il paradiso in terra. A quel tempo si affibbiava ai dissidenti l’etichetta di “socialfascisti” o di “reazionari”. Oggi, in un tornante storico con meno pretese, si parla di “populisti” (anche se il fascismo, dobbiamo riconoscerlo, sta recuperando posizioni in questa particolare classifica). Salvo poi fare i conti con il verdetto della storia.
Chi scrive, dando per scontato quanto scontato non è (ossia che Biden alla fine sarà costretto a fare un passo indietro) vuole rivolgere un pensiero all’anziano presidente. Sperando che la sua ritrosia a ritirarsi derivi più che altro dalla sua condizione di “ostaggio” (e non da un attaccamento spasmodico alla poltrona), facciamo nostre le parole di Niki Lauda: “Quando ce la fai sono tutti con te, quando perdi li hai tutti contro. In mezzo non c’è niente”. Quel mezzo è adesso.