Negli Stati Uniti, l’export di prodotti italiani si colloca al terzo posto, dopo Messico e Canada (favoriti però da ovvie ragioni geografiche), raggiungendo nel 2023 i 7,3 miliardi di dollari. Un asset prezioso sia in termini economici che di promozione di uno stile di vita più sano. Un comparto, quello dell’agroalimentare, che fa a pieno titolo parte del soft power italiano, implementando la nostra attrattività internazionale.
Comparto che va però difeso da molteplici minacce, a cominciare da quella del falso Made in Italy, che nel mondo sembrerebbe affliggere circa la metà dei prodotti presentati come “italiani”. Emblematico il caso del Parmesan, ma potrebbero essere fatti numerosi altri esempi. Su questo e su altri temi Italia Report USA ha intervistato Tommaso Battista, presidente della Copagri (Confederazione Produttori Agricoli).
L’Italia vede nell’agroalimentare uno dei settori di punta, anche in termini di export. Allo stesso tempo, il comparto è gravato dal falso Made in Italy, che costituisce una seria minaccia per le imprese della nostra filiera. Come implementare l’attrattività delle nostre eccellenze, prevenendo al contempo le contraffazioni?
Quello del falso Made in Italy è un problema sicuramente rilevante, soprattutto se associato alla correlata problematica del cosiddetto Italian Sounding, che sottrae importanti quote di mercato al nostro Paese, con evidenti e dirette ricadute anche sul reddito dei produttori agricoli. Per intenderci, parliamo di decine e decine di miliardi di euro di mancati introiti per il nostro Paese.
Per valutare la questione nella sua interezza, però, bisogna fare dei distinguo, facendo bene attenzione alle diverse implicazioni che derivano dal contesto nel quale si verificano queste problematiche. Sul piano comunitario, infatti, anche grazie al grande lavoro dell’Italia, è stato recentemente approvato il “Testo unico per la qualità UE”, con il quale si sancisce l’assoluto divieto per i produttori di usare nomi simili a quelli di prodotti tradizionali, andando in tal modo a rafforzare ulteriormente il ruolo dei marchi DOP e IGP e dei relativi consorzi di tutela; inutile dire che un simile risultato va a beneficio di tutti i paesi Ue con un grande numero di prodotti IG, primo fra tutti l’Italia.
Per quanto concerne il piano extra comunitario, invece, bisogna fare un ragionamento diverso; in tale ambito, infatti, non è del tutto corretto parlare di falso Made in Italy, dal momento che le indicazioni geografiche sono riconosciute e tutelate solo all’interno dell’Unione europea. Si può e si deve, al contrario, parlare di Italian Sounding, ovvero dell’evocazione fraudolenta dell’origine italiana dei prodotti agroalimentari, utilizzando nomi e immagini che richiamano l’Italia e disorientano di conseguenza i consumatori inducendoli a ritenere che siano prodotti di origine italiana anche quando il Belpaese c’entra poco o nulla; solo negli USA, secondo recenti indagini, circa il 67% dei consumatori viene tratto in inganno da questo tipo di sistemi.
Cosa fare dunque? Sicuramente, da un lato, bisogna ribaltare il ragionamento e guardare all’Italian Sounding come un’opportunità, ovvero come la ‘prova provata’ della grande fame di Italia e di italianità che c’è all’estero e, in questo senso, continuare a spingere e investire, come stanno egregiamente facendo il governo italiano e la Farnesina, sulla promozione dell’agroalimentare italiano e sull’informazione al consumatore, anche attraverso fiere e iniziative commerciali.
Dall’altro lato, invece, è necessario riprendere in mano la partita degli accordi di libero scambio, vera e propria chiave di volta per riconoscere le IG e per scongiurare, come purtroppo avvenuto in passato, deprecabili guerre commerciali, che danneggiano tutte le parti in causa; con riferimento agli Stati Uniti, ad esempio, bisognerebbe ricominciare a ragionare sui contenuti del Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, il famigerato TTIP, in corso di negoziato tra l’Unione europea e gli USA dal lontano 2013.
Con il progetto Italea, la Farnesina sta puntando molto sul turismo delle radici. I 6 milioni di italiani all’estero e gli 80 milioni di italo-discendenti rappresentano una platea preziosa per rinsaldare i legami con il Belpaese. Numerose le agevolazioni e i servizi resi fruibili da Italea Card con strutture ricettive, ristoranti e aziende enogastronomiche. Come valuta l’iniziativa portata avanti dal MAECI?
Iniziative come Italea rispondono pienamente alla necessità poc’anzi richiamata, ovvero quella di promuovere l’italianità e di informare il consumatore sulla grandissima qualità e varietà dell’agroalimentare italiano; la fondamentale rilevanza di una simile attività, che consente a tutti gli italiani residenti all’estero e ai loro discendenti di scoprire o riscoprire le proprie origini e tradizioni, sta anche nella grande attenzione che la Farnesina ha riservato alla cucina, alla gastronomia e alla straordinaria cultura enogastronomica del Paese.
Quello tra agroalimentare e turismo, infatti, è un binomio solido e indissolubile, che da sempre caratterizza il Belpaese e che, non a caso, ha dato vita alla grande tradizione agrituristica italiana; proprio per tali ragioni, ci siamo sin da subito fatti parte attiva per assicurare il coinvolgimento delle tantissime strutture agrituristiche del Paese in una simile positiva iniziativa; basti pensare che, ad oggi, in Italia sono presenti oltre 26mila agriturismi, cifra in costante crescita ormai da diversi anni, che permettono ai tantissimi turisti che visitano il nostro Paese di conoscere l’Italia attraverso i territori storici e le diverse culture culinarie che la compongono.
Accanto a Italea, ci sono poi tantissime altre lodevoli iniziative messe in campo dalla Farnesina in tutto il mondo, grazie alle numerose missioni diplomatiche e commerciali organizzate in collaborazione con l’ICE, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane; come presidente della Copagri, ho avuto la fortuna di partecipare a diverse di queste missioni, potendo toccare con mano il grande interesse che c’è in tantissimi Paesi nei confronti del know-how italiano e delle sua tantissime eccellenze agroalimentari; proprio per questo posso affermare, senza timore di smentita, che quella della diplomazia e del dialogo è e resta una delle vie maestre da seguire per far crescere il nostro Paese.
Il tema della Politica agricola comune è da sempre uno dei più importanti in sede europea. Eppure, le tensioni registrate all’inizio di quest’anno, con le proteste degli agricoltori in molteplici Paesi UE, hanno dato al comparto una visibilità forse inedita. In occasione delle ultime elezioni europee, Copagri ha indirizzato alle istituzioni UE un manifesto con le proprie proposte per tutelare il settore. Quali sono i punti caratterizzanti?
Innanzitutto, a proposito delle proteste, permettetemi di ricordare che in un Paese democratico il dissenso è più che lecito e, al contempo, è utile se porta a un confronto costruttivo, se arricchisce il dibattito e se serve a gettare le basi di un futuro migliore; è proprio per tali ragioni che la Copagri, unica tra le maggiori organizzazioni agricole del Paese, si è da subito schierata al fianco dei tantissimi agricoltori che in maniera spontanea, autonoma e trasversale hanno deciso di scendere in piazza per manifestare il grande disagio che si vive da tempo nelle campagne italiane e per chiedere con forza un rapido e deciso cambio di passo nell’ambito della politica comunitaria in generale e della Politica agricola comune-PAC in particolare.
Non è un caso che molti dei temi sollevati dai manifestanti fossero già da tempo al centro del lavoro della Confederazione Produttori Agricoli. A riprova di ciò, basta guardare agli esiti dei numerosi confronti istituzionali ai quali la Copagri è stata chiamata a offrire il proprio contributo o, più semplicemente, ai contenuti del manifesto programmatico della Confederazione, realizzato in vista delle ultime elezioni europee e contenente diverse richieste e proposte per una visione comune e sinergica per l’agricoltura UE del futuro.
Tra queste figurava, ad esempio, la sburocratizzazione e la semplificazione di una PAC troppo spesso calata dall’alto, richiesta questa che è stata parzialmente accolta dalla Commissione Europea, che ha sensibilmente ridotto gli oneri amministrativi a carico degli agricoltori, come ripetutamente richiesto dalla Copagri, e ha stabilito di garantire agli Stati Membri una maggiore flessibilità nell’applicazione delle misure previste dai Piani Strategici Nazionali-PSN, che possono ora essere modificati fino a due volte l’anno. Sempre la Commissione UE, a seguito delle proteste e in sinergia con le organizzazioni di categoria, ha introdotto sensibili miglioramenti in merito ai rigidi vincoli ambientali cui sono sottoposti i produttori agricoli comunitari, rinviando l’obbligo di lasciare il 4% dei terreni a riposo ed esentando le aziende agricole sotto i 10 ettari, che rappresentano il 65% circa dei beneficiari della PAC, dai controlli e dalle sanzioni relative al rispetto dei requisiti di condizionalità.
È chiaro che i problemi sul tavolo degli agricoltori restano ancora molti, a partire dalla scarsa redditività, dalla distribuzione del valore lungo la filiera e dagli alti costi di produzione, tutti temi presenti nel nostro manifesto programmatico, ma è indubbio che questa prima risposta delle istituzioni comunitarie rappresenti un passo avanti verso le legittime istanze delle migliaia di produttori agricoli che da mesi chiedono un rapido cambio di passo.
Ricordo brevemente alcune delle altre proposte e richieste, sulle quali abbiamo già incassato diversi risultati positivi, ma sulle quali resta ancora molta strada da fare: difendere il bilancio agricolo comunitario dai continui tentativi di svilirne l’efficacia; promuovere e agevolare l’accesso al credito agricolo attraverso strumenti UE; rafforzare i controlli sui prodotti extra UE, vigilando sul rispetto del principio di reciprocità negli accordi commerciali internazionali; creare strumenti europei per la gestione del rischio e dei danni causati dagli effetti del climate change; tenere in debita considerazione il ruolo dell’agricoltore quale custode dell’ambiente e del territorio; incentivare il ricambio generazionale in agricoltura implementando le misure previste nella PAC; puntare con sempre maggiore decisione a livello UE sulle innumerevoli possibilità offerte dalla ricerca e dall’innovazione applicata all’agricoltura; potenziare il sistema di prevenzione volto a contrastare fitopatie ed epizoozie a livello unionale.
Esiste una contrapposizione tra la transizione energetica e le esigenze economiche, anche primarie, degli agricoltori?
Non esiste e non deve esistere, per il semplice motivo che si tratta di due facce della stessa medaglia che devono necessariamente avanzare di pari passo, anche e soprattutto perché l’una ha bisogno dell’altra; i produttori agricoli non possono prescindere dalla transizione energetica, che ci viene chiesta direttamente dall’Europa, ma allo stesso tempo la rivoluzione green non può prescindere dal fondamentale apporto che deriva dagli agricoltori e dai loro terreni.
È chiaro, però, che in questa “simbiosi” non si deve mai sottovalutare l’importanza di tutelare la primaria funzione dei terreni agricoli, che è e deve continuare a essere quella di produrre cibo; e tale assunto è ancora più rilevante se rapportato al fatto in Italia la perdita di terreni agricoli, secondo recenti dati dell’Ispra, sfiora il 70% del consumo totale di suolo, con quasi 5.000 ettari di terra che nel corso del 2023 è stata sottratta alle attività agricole dalla cementificazione, dall’abbandono e dal cambiamento climatico.
La perdita di suolo agricolo, oltre alle evidenti ricadute in termini produttivi, impatta direttamente e significativamente sulla capacità di fornire servizi ecosistemici, quali ad esempio la regolazione del clima, la cattura e lo stoccaggio del carbonio, il controllo dell’erosione e dei nutrienti, l’assorbimento dell’acqua e la regolazione della sua qualità, la protezione e la mitigazione dei fenomeni idrologici estremi, la riserva genetica o la conservazione della biodiversità.
In passato si è corso il rischio che si venisse a creare tale deleteria contrapposizione tra le esigenze dell’agricoltura e quelle della transizione energetica, ma per fortuna, anche grazie al forte pressing della Copagri e al pronto intervento del governo, ha prevalso la linea del buonsenso e si è legiferato per limitare l’uso del suolo agricolo per l’installazione degli impianti fotovoltaici con moduli a terra.
La salvaguardia del suolo, e del suolo agricolo in particolare, infatti, è condizione dirimente per tutelare la popolazione dai sempre più frequenti rischi derivanti dal dissesto idrogeologico, legati a doppio filo alle ricadute del climate change, evitando al contempo di incrementare la dipendenza del nostro Paese dall’estero per alcune produzioni agroalimentari.
Proprio per tali ragioni, quello individuato dal governo sull’agrivoltaico è un compromesso di assoluto buon senso, che da una parte tutela il Primario e i suoi terreni e dall’altra dà una concreta spinta alla transizione energetica del Paese, assicurando la fondamentale realizzazione dei progetti finalizzati alla costituzione di Comunità energetiche rinnovabili-CER e di quelli attuativi delle altre misure di investimento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza-PNRR.
L’estate ha fatto registrare prolungate temperature sopra la media e diverse regioni italiane sono state alle prese con un’emergenza siccità davvero preoccupante. Cosa fare per mitigarne l’impatto?
Il sempre più frequente verificarsi di situazioni di crisi idrica, che nell’estate appena trascorsa hanno interessato praticamente tutto il Meridione, compromettendo gravemente la produttività di numerose filiere agricole, certifica per l’ennesima volta la necessità di intervenire in maniera strutturale per contenere gli effetti di una problematica che ha ormai assunto un carattere endemico.
Nonostante il grande impegno dei produttori agricoli e i numerosi passi avanti in termini di risparmio idrico, fatti anche e soprattutto grazie ai grandi risultati della ricerca e dell’innovazione e al sempre più frequente ricorso all’agricoltura di precisione, che incide sensibilmente sull’impronta idrica, la strada da fare è ancora molta e passa necessariamente dall’efficientamento della rete infrastrutturale idrica colabrodo del Paese, dalla creazione di nuovi bacini, dall’attivazione di depuratori per l’utilizzo delle acque reflue e dal concreto avvio di un serio ragionamento sulla dissalazione delle acque marine.
Vale la pena di ricordare che l’agricoltura è il settore produttivo che probabilmente più di qualunque altro è indissolubilmente legato alla disponibilità della risorsa idrica, ma è allo stesso tempo un comparto che, nonostante il grande impegno poc’anzi richiamato, ha ampi margini di miglioramento in materia di utilizzo dell’acqua, sia in termini agronomici, che genetici e di scelte colturali.
Basti pensare alle molteplici applicazioni legate all’irrigazione di precisione, ma anche e soprattutto alle innumerevoli possibilità offerte dall’innovazione e dalla ricerca applicata all’agricoltura, a partire dalle Tecniche di Evoluzione Assistita-TEA, grazie alle quali si potrebbero coltivare specie vegetali meno idroesigenti che permettano al contempo di mantenere adeguati livelli produttivi.
In ogni caso, viste le sempre più frequenti crisi idriche che vive il Paese, e che l’agricoltura in particolare sconta da tempo, è bene interrogarsi su tutte le possibili soluzioni da mettere in campo, approfittando anche delle molteplici possibilità offerte dal PNRR, e avviando un serio ragionamento sull’utilizzo dei dissalatori. La dissalazione dell’acqua marina, infatti, potrebbe essere un ottimo sistema per recuperare, a costi relativamente contenuti, ingenti quantitativi di risorsa idrica da destinare all’uso potabile, liberando di conseguenza acqua a uso irriguo; si tratta di una strada già perseguita da moltissimi altri Paesi, quali Israele e Spagna, con positivi risvolti anche sull’occupazione.
Iniziative simili, soprattutto se abbinate a una preventiva e attenta mappatura del territorio, nonché a investimenti volti ad ammodernare la rete irrigua e ad azzerare o ridurre al massimo gli sprechi, permetterebbero di passare da una gestione emergenziale della risorsa acqua a una più sistemica, in grado di dare risposte strutturali ai problemi del Paese, che guardino anche al medio-lungo periodo.
L’Italia, infatti, che ogni anno preleva dalle falde oltre 9 miliardi di metri cubi di acqua potabile, pari a oltre 400 litri al giorno a persona, sconta una gravissima dispersione della risorsa idrica, causata da una rete colabrodo con perdite medie del 40-50% e con una scarsissima manutenzione; in questo contesto si inseriscono gli effetti del climate change, che potrebbe causare una significativa riduzione della disponibilità di risorse idriche, fino al 40% a livello nazionale e fino al 90% per il Sud Italia nel lungo termine. Molto banalmente: minori risorse idriche significa minore produzione e minore produzione equivale a minore export, in un contesto nel quale l’export agroalimentare dipende per l’83% dalla disponibilità idrica; non credo serva aggiungere altro.
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