Le acque agitate al Washington Post per la decisione, annunciata a sorpresa dal suo editore William Lewis di non dare il suo sostegno a uno dei due candidati alla Casa Bianca, hanno indotto il proprietario Jeff Bezos ad uscire allo scoperto. Per protesta, circa 200mila lettori hanno pubblicato gli screenshot della cancellazione degli abbonamenti. Sulla rete imperversa anche il movimento #BoycottWaPo, mentre continuano le proteste in redazione. Dopo Robert Kagan, un’altra editorialista, Michele Norris, ha annunciato la “difficile decisione” di non collaborare più con il giornale. Sono diventati 19 gli editorialisti che hanno firmato una colonna in cui si condanna la decisione come “un tradimento delle convinzioni del giornale che amiamo” e si parla di una scelta “valori democratici” e “la minaccia che Trump costituisce per loro”.
Ribadita la scelta di principio a tutela dell’imparzialità
“Rinunciare all’endorsement è una scelta di principio, ed è quella giusta”. Jeff Bezos, patron di Amazon che dal 2013 e proprietario della storica testata di Washington, ha rivendicato in un editoriale pubblicato sul Washington Post la decisione di non fare esprimere il giornale di cui è editore a favore di uno dei due candidati alle presidenziali americane. Sia nel 2016 che nel 2018 la testata si era schierata contro Donald Trump. “Gli endorsement presidenziali non servono a far pendere l’ago della bilancia di un’elezione. Nessun elettore indeciso in Pennsylvania dirà: ‘Scelgo in base all’endorsement del giornale A’. Nessuno. Ciò che gli endorsement presidenziali fanno è creare una percezione di parzialità. Una percezione di mancata indipendenza”.
Richiamato un precedente illustre: “Eugene Meyer, editore del Washington Post dal 1933 al 1946, la pensava allo stesso modo e aveva ragione. Di per sé, il rifiuto di appoggiare i candidati presidenziali non è sufficiente a farci avanzare di molto nella scala della fiducia, ma è un passo significativo nella giusta direzione. Avrei preferito che il cambiamento fosse avvenuto prima, in un momento più lontano dalle elezioni e dalle emozioni che le hanno accompagnate. Si è trattato di una pianificazione inadeguata e non di una strategia intenzionale”.
Bezos insiste sulla scelta interna
“Vorrei anche chiarire, ha proseguito l’editore del Post, che non c’è alcun tipo di contropartita. Nessuna delle due campagne, nessuno dei due candidati sono stati consultati o informati a qualsiasi livello o in qualsiasi modo di questa decisione. È stata presa interamente a livello interno. Dave Limp, l’amministratore delegato di una delle mie società, Blue Origin, ha incontrato l’ex presidente Donald Trump il giorno del nostro annuncio. Ho fatto un sospiro quando ne sono venuto a conoscenza, perché sapevo che avrebbe fomentato coloro che volevano inquadrare questa decisione in qualcosa di diverso da una scelta di principio. Ma il fatto è che non sapevo dell’incontro in anticipo. Né lo sapeva Limp; la riunione è stata fissata in tempi brevi quella mattina. Non c’è alcun collegamento con la nostra scelta sugli endorsement alle presidenziali, e qualsiasi suggerimento contrario è falso”.
Il magnate sottolinea la sua non ingerenza
Guanto di sfida lanciato ai contestatori: “Potete considerare la mia ricchezza e i miei interessi commerciali come un baluardo contro le intimidazioni, oppure potete vederli come una rete di interessi conflittuali. Solo i miei principi possono far pendere la bilancia da una parte all’altra. Vi assicuro che le mie opinioni qui sono, in effetti, basate su principi, e credo che i miei precedenti come proprietario del Post dal 2013 lo confermino. Naturalmente siete liberi di fare la vostra scelta, ma vi sfido a trovare un solo caso in questi 11 anni in cui io abbia prevalso su qualcuno del Post a favore dei miei interessi. Non è mai successo”.
La conclusione del pezzo del terzo uomo più ricco del mondo è dedicata al crollo della fiducia dei lettori nei confronti dei media e alle cattive abitudini di gran parte della popolazione, che si affida a redattori di fortuna, privi di preparazione e di etica professionale: “La mancanza di attendibilità non è un’esclusiva del Post. Molte persone si rivolgono a podcast non ufficiali, a post imprecisi sui social media e ad altre fonti di notizie non verificate, che possono rapidamente diffondere disinformazione e allargare le divisioni. Il Washington Post e il New York Times fanno incetta di premi, ma sempre più spesso parliamo solo con una certa élite. Sempre più spesso parliamo a noi stessi”.
L’inno finale di Jeff Bezos al vero giornalismo
L’ultimo passaggio è una sorta di manifesto di lotta del giornalismo autentico, quello del lavoro di redazione, della continenza, della pertinenza e della veridicità: “Se da un lato non voglio promuovere e non promuoverò il mio interesse personale, dall’altro non permetterò che questo giornale vada avanti con il pilota automatico e svanisca nell’irrilevanza, superato da podcast non studiati e da battute sui social media, non senza lottare. È troppo importante. La posta in gioco è troppo alta. Ora più che mai il mondo ha bisogno di una voce credibile, affidabile e indipendente”.