Gli ucraini pongono come condizione negoziale il ritorno ai confini del 2014. I russi non intendono fermarsi senza prima aver portato a casa qualche successo strategico degno di nota. Su cosa trattano?
Sul confine del cessate il fuoco. La “propaganda di guerra” – con cui i poteri dominanti in Occidente cercano di condizionare l’opinione pubblica – sta nascondendo una verità elementare: la pace si costruisce cominciando dai fatti preliminari, quindi innanzitutto il cessate il fuoco e poi l’apertura di un tavolo di trattative per affrontare i problemi più pesanti. Se c’è una trattativa adesso in corso può essere solo su quanto territorio deve rimanere in mano russa al momento del cessate il fuoco. La controffensiva di Zelensky non serve a vincere la guerra, è solo un modo per fare propaganda e per riguadagnare terreno prima del cessate il fuoco.
Negli Stati Uniti i principali candidati alle primarie repubblicane hanno espresso più volte perplessità e distinguo sull’entità del supporto americano a Kiev. Una vittoria repubblicana alle presidenziali del prossimo anno cambierebbe radicalmente lo scenario oppure gli apparati riuscirebbero comunque a far prevalere la linea della continuità?
Non basta parlare di repubblicani, bisogna distinguere tra trumpiani e neo-conservatori. Se Trump fosse rimasto presidente la guerra in Ucraina non sarebbe neppure incominciata. I neo-conservatori, invece, sembrano muoversi sulla stessa linea del presidente Bush, in sintonia con i democratici nell’idea del tutto superata di fare della NATO il poliziotto del mondo. Quindi in questo caso sarebbe molto più facile al deep state imporre una continuazione del conflitto.
Trump o DeSantis?
Per i motivi detti sopra non si può non preferire Trump: l’abbiamo già visto all’opera e non si è mosso certo come un guerrafondaio. È vero che DeSantis si è reso protagonista di alcune uscite positive sul conflitto in Ucraina e che può avvalersi di una maggiore presentabilità. Mi chiedo però se alla prova dei fatti riuscirebbe a comportarsi come Trump, neutralizzando possibili derive di stampo neocon.
Biden ha dichiarato pochi giorni fa che finché l’Ucraina sarà in stato di guerra non potrà essere ammessa nella NATO. Non è un paradosso che alla Russia basti protrarre il conflitto per raggiungere uno dei suoi obiettivi principali, ossia bloccare l’ulteriore estensione ad Est dell’alleanza atlantica?
In parte è così, ma il trattato istitutivo della NATO parla chiaro: paesi già coinvolti in un conflitto non possono entrare nell’Alleanza, perché altrimenti sarebbe definitivamente stravolto il senso di quella che dovrebbe essere un’alleanza puramente difensiva. Già la NATO viene utilizzata ampiamente per compiti militari e politici che non sono affatto previsti nei trattati, accettare come membro un’Ucraina in guerra sarebbe la violazione definitiva del mandato democratico con cui i governi hanno aderito alla NATO.
Chi ha vinto e chi ha perso dopo il 24 febbraio 2022?
Ha perso l’Europa e ha perso la Russia. Il clamoroso errore – nonostante tutte le provocazioni che aveva subito – compiuto da Putin invadendo l’Ucraina, ha bruscamente reciso i fili di dialogo intessuti per anni tra Mosca e le capitali europee. L’obiettivo dell’Amministrazione Biden per altro era proprio questo: rompere la potente collaborazione economica ed energetica che si era creata, nonostante le sanzioni, tra Europa e Russia. Ha vinto, invece, la Cina che è diventata il vero dominus di questo conflitto, mettendo in una chiara posizione di subordinazione la Russia. Non so se abbiano vinto gli Stati Uniti. Nell’immediato sicuramente sì, perché hanno ottenuto il riallineamento e il depotenziamento di tutta l’Europa. Nel lungo periodo probabilmente è vero il contrario: mettere la Russia nelle braccia della Cina potrebbe infatti non essere stata una mossa giusta. Henry Kissinger ad esempio non la pensa così.
Un mese fa moriva Silvio Berlusconi. Il sito ucraino Myrotvoretz lo aveva inserito in una lista di “nemici” dell’Ucraina, con tanto di scritta “liquidato” dopo che la notizia del decesso aveva fatto il giro del mondo. L’uscita di scena di Berlusconi quanto influenzerà la posizione italiana sul conflitto? Lei condivide la sua eredità politica per quanto concerne le relazioni tra Occidente e Russia?
La politica estera è stata sicuramente la parte migliore dell’esperienza di governo di Berlusconi. La stretta di mano tra Putin e Bush rimarrà nella storia, così come gli accordi di collaborazione con Gheddafi. Sono stati i momenti di massima incidenza dell’Italia nello scenario internazionale durante la seconda Repubblica. La morte di Berlusconi lascia la politica italiana ancora più esposta a un’escalation nel conflitto, perché viene meno uno dei pochi freni politici su questa strada. Tutto il centrodestra non poteva non tener conto delle sue uscite – sia pure estemporanee – a favore della pace. L’eredità che il fondatore di Forza Italia ci lascia è quella di una posizione equilibrata e frenante all’interno dell’Occidente, allo stesso modo dei grandi leader democristiani, ma chi oggi saprà raccogliere questa eredità?
In seguito all’invasione dell’Ucraina lei ha fondato il comitato “Fermare la Guerra”. Quali proposte porta avanti?
Il nostro è l’unico comitato contrario alla guerra che proviene dalla destra politica, in netta controtendenza con le scelte fatte da Giorgia Meloni. Stiamo trovando un grande riscontro nella nostra area politica di provenienza e, in collaborazione con gli altri comitati di tutte le estrazioni politiche, stiamo cercando di dare voce alla maggioranza degli Italiani contrari all’invio di armi in Ucraina. Stiamo concludendo la raccolta di firme per il referendum per cancellare il decreto che permette questo invio di armi e il 29-30 luglio saremo ad Orvieto in una grande convention in cui prenderemo posizione non solo sulla guerra ma su tutta la politica estera dell’Italia, che noi giudichiamo troppo appiattita sulle posizioni dell’Amministrazione Biden e su quelle della Commissione europea di Ursula von Del Leyen.
Italia Report USA si rivolge principalmente ai nostri connazionali all’estero. Cosa possono fare gli italiani per promuovere la propria identità nazionale nei Paesi d’arrivo? Specularmente, cosa può fare l’Italia per non disperdere queste energie sparse per il pianeta?
Sviluppare i rapporti culturali, politici e commerciali con la loro madre Patria. Essere fedeli cittadini dello Stato in cui si vive, ma senza mai dimenticare le proprie radici e il valore dell’Identità italiana. Ad esempio combattere le contraffazioni agro-alimentari dell’Italian sounding e far conoscere ai consumatori di tutto il mondo il vero made in Italy sarebbe già un’operazione di grande portata economica e culturale. La globalizzazione che stiamo vivendo, oltre che senza regole, è troppo improntata ai valori e alle ideologie dell’anglosfera, mentre ci vuole più spirito latino e italiano per costruire una “globalizzazione dal volto umano”. L’Italia, dal canto suo, deve investire su questo rapporto, valorizzando il ruolo dei suoi parlamentari eletti all’estero e tornando ad istituire, se non un Ministero come ai tempi di Tremaglia, almeno un viceministro per gli italiani all’estero.
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