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Home Editoriale

Via D’Amelio, 32 anni dopo ci resta la lezione di Borsellino

Anna Summonte by Anna Summonte
Luglio 19, 2024
in Editoriale, Ultimissime
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via D'Amelio
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Trentadue anni. Trentadue anni che sembrano minuti. Perché la strage di via D’Amelio, il tempo l’ha fermato. Ha inciso l’anima della Sicilia, ha attaccato i polmoni dei siciliani soffocandoli, togliendo quel poco ossigeno che, dopo anni di apnea, avevano appena ricominciato a respirare. Quella strage, più delle altre, ci ha ingabbiato per sempre in quegli attimi orribili.

Il magistrato siciliano, simbolo della lotta alla mafia, è morto il 19 luglio 1992, insieme a cinque uomini della sua scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina). Saltati in aria per lo scoppio di un’auto bomba parcheggiata sotto casa della mamma del giudice in via D’Amelio. In quella torrida domenica di 32 anni fa Borsellino era andato a pranzo dal suo amico Pippo Tricoli, leader regionale del Msi e docente di Storia Contemporanea all’Ateneo di Palermo, poi era corso dall’anziana mamma per il suo compleanno, in via D’Amelio.

Anche oggi è il 19 luglio 1992. E lo sarà sempre. Nel bene, nel male, nella sofferenza e nella brama di rinascita. Serve un nuovo vento. Lo dobbiamo a Giovanni, a Paolo, a Francesca, ai ragazzi della scorta. Lo dobbiamo a tutte le vittime di questo tumore maligno. che ha attaccato gli organi vitali della nostra terra. Lo dobbiamo a noi stessi.

Ora, di fronte al bivio dove ci troviamo oggi, possiamo continuare a sentire dolore, accettare la perdita, continuare a portare corone di fiori davanti alle tombe di tutti gli eroi una volta all’anno oppure scegliere di non morire ogni giorno.

La data del 19 luglio 1992 rappresenta una ferita ancora aperta per chi crede in un’Italia giusta. Paolo Borsellino sfidò il sistema mafioso senza mai temere la morte, insegnandoci a non restare a guardare e a non voltarci mai dall’altra parte. Il suo coraggio e la sua integrità sono doni che ci ha lasciato e che tanti giovani hanno deciso di raccogliere per affermare due valori imprescindibili: la legalità e la giustizia.

Oggi, a 32 anni di distanza da quel terribile attentato, ricordiamo tutti quegli eroi che non ebbero paura di denunciare al mondo il vero volto della criminalità organizzata e che servirono lo Stato fino all’ultimo. Nel loro esempio portiamo avanti il nostro impegno quotidiano per estirpare questo male dalla nostra Nazione: solo così il loro sacrificio non sarà mai vano.

L’impegno antimafia non si esaurirà mai, perché “la lotta alla mafia è parte di noi, è un pezzo fondante della nostra identità, è la questione morale che orienta la nostra azione quotidiana”.

Scegliere di alzare le maniche e scavare con le mani nella nostra terra, gettarvi un nuovo seme. Partire dalla vita, dai nostri figli. Togliere noi, questa volta, ossigeno alla mafia negandogli il terreno più fertile. I nostri bambini, i nostri giovani. Il futuro. Ma domani? Quando tutti toglieremo dalla nostra pagina dei social l’immagine di Falcone e Borsellino, cosa resterà? Questo vento nuovo si abbasserà per fare spazio alla solita calma piatta? Basterà vivere giornate — splendide, nobili — come queste per dare ai nostri ragazzi gli strumenti necessari per vivere una vita con la schiena dritta? È dalla scuola che deve nascere il sussulto, la coscienza. Che i nostri ragazzi studino la mafia, le stragi, il sangue che è stata capace di spargere così come studiano la battaglia di Caporetto o la Seconda guerra mondiale! Che recitino le parole di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino o di chiunque altro abbia donato la vita affinché ne uscisse sconfitta così come lo fanno con le poesie di Ungaretti, di Leopardi! La scuola non può, non deve essere ferma al palo, in questo senso. La scuola serve tutta. La scuola deve intervenire radicalmente. La conoscenza del fenomeno mafioso, di tutte le battaglie che sono state combattute per strada non può essere randomica.

È l’indignazione il carburante emotivo che deve portare i nostri a ragazzi a esulare questo fenomeno culturale negativo. L’indignazione di fronte a certi tipi di comportamenti mafiosi deve essere costante giornaliera tra i banchi in modo da praticare l’onestà soprattutto fuori dalle mura scolastiche, tra i gruppi di amici. La scuola — e insieme ad essa sempre la famiglia, si intende — deve dare gli strumenti necessari affinché atteggiamenti come l’omertà siano identificati come una vergogna, non qualcosa da ostentare.

Oggi siamo di fronte a una grande trasformazione antropologica: abbiamo smesso di parlare quotidianamente di mafia. Dal momento che non fa più stragi clamorose, abbiamo la percezione che non uccida più mentre non ci rendiamo conto che oggi, silenziosamente, senza tritolo, con i traffici di droga, la mafia uccide come prima se non più di prima. Ormai è diventata sistema. Non la avvertiamo più come pericolosa e ce ne disinteressiamo. È l’errore più grave che possiamo fare. Sottovalutare questa cosa vuol dire non aver capito la lezione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: “La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine.” Vuol dire allontanarne la fine. Vuol dire voler rimanere fermi, ancora ingabbiati in via D’Amelio, quel 19 luglio 1992.

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