L’America di Trump vista dall’Italia

Meloni

È serrato il dibattito in Italia su quale sia il politico più affine o solo più vicino a Donald Trump, 47esimo presidente degli Stati Uniti dal 20 gennaio scorso. Una scelta che – stringi stringi – è limitata a due soli nomi: la premier Giorgia Meloni e il suo vice, nonché leader della Lega, Matteo Salvini. Ma se quest’ultimo può rivendicare il merito di aver puntato sull’“Arancione” sin dal primo minuto della sua sfida con Kamala Harris, la prima è forte del suo ruolo di capo di governo che le assegna oggettivamente un vantaggio difficilmente colmabile. Sarebbe infatti inimmaginabile un rapporto preferenziale tra l’Inquilino della Casa Bianca e il vicepremier piuttosto che con il “number one” del governo italiano. Quel che tuttavia i nostri media (italiani) non hanno (ancora) approfondito e analizzato è invece la percezione di “The Donald” presso l’opinione pubblica. Un buco informativo probabilmente voluto dagli “opinion makers” della sinistra e ancor più probabilmente dettato dalla paura che la rilevazione dell’elevato livello di simpatia riscosso da Trump presso gli italiani finisca per tradursi in un vantaggio politico-elettorale per la destra al governo e, segnatamente, per Giorgia Meloni. Oltreoceano non si meraviglieranno di apprendere che in Italia, come del resto negli Usa, il Tycoon non gode di grande popolarità sulla stampa cosiddetta “autorevole”. Anzi: vi è dipinto alla stregua di un uomo pericoloso, intenzionato a spezzare l’antico legame con l’Europa in nome di un isolazionismo geopolitico ed economico che esporrebbe gli alleati del Vecchio Continente alle supposte pretese espansionistiche della Russia di Putin. Accanto a questi scenari a tinte foschi gioca, nella demonizzazione di Trump, la sua dichiarata indisponibilità a sobbarcarsi più o meno per intero le spese della Nato e quindi della difesa comune. A pochi commentatori, tuttavia, viene in mente che le idee e le soluzioni che all’estero contribuiscono alla mostrificazione del presidente americano sono le stesse che in patria gli hanno consentito di stravincere le elezioni ribaltando tutti i pronostici della vigilia. Lo stesso accade in Italia, dove la benedizione della grande stampa si risolve spesso in un problema in termini di raccolta del consenso. Per un motivo molto semplice: da noi, più che altrove, le élite hanno divorziato dal popolo. Non offrono più idee e soluzioni ma passano il loro tempo a lanciare ridicoli allarmi, ai quali per altro nessuno dà più peso, sul ritorno del “pericolo fascista” o su altre baggianate del genere. Cosicché se i cittadini hanno paura dell’immigrazione incontrollata o dell’insicurezza che si respira nelle città, e non solo in quelle grandi, invece di raccoglierne ansie, paure e sofferenze, li irridono e li bersagliano come “razzisti” e “incivili”. Allo stesso modo diventa “omofobo” e “sessista” chiunque azzardi un giudizio sullo strapotere mediatico, e non solo, della potente lobby Lgbtqia+. La speranza di molti anche in Italia è che la vittoria di Trump segni una vera inversione di tendenza, che si può riassumere in poche parole: il ritorno alla sovranità popolare dopo decenni di post-democrazia. Dalla fine della Seconda guerra mondiale gli Usa hanno costantemente funzionato da laboratorio politico, oltre che culturale. Non stupisce, quindi, se la vittoria di Trump venga considerata dai cittadini come il preludio di un’era nuova e – perché no? – anche più impostata sulla ricerca della pace da fondare su un nuovo ordine mondiale. Nella sua prima presidenza Trump non solo non ha scatenato alcuna guerra ma ha condotto in porto gli Accordi di Abramo per calmierare il Medio Oriente ed ha inaugurato la strategia del dialogo con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un per non lasciare il Pacifico nelle mani della Cina. Oggi a tenere banco, fin dentro il cuore della vecchia Europa, è il conflitto russo-ucraino. Anche in questo caso gli italiani confidano che il nuovo presidente sappia trovare la strada giusta per porvi fine. Dovesse riuscirvi, a restarne per sempre scornati sarebbero proprio quelli che dall’alto dei loro trespoli televisivi oggi lo dipingono come il Presidente più pericoloso di sempre.

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